Che cos'è
Per piattismo si intende un aumento della superficie di appoggio del piede associato a un abbassamento significativo dell’arcata plantare longitudinale. Al podoscopio, pedana transilluminata a fluorescenza per vedere l’appoggio, si nota una scomparsa dell’arco plantare e, in genere, un valgismo del calcagno, cioè una deviazione del calcagno verso l’esterno.
Per questo il piede piatto è detto anche piatto-valgo.
Può essere nel bambino, come nell’adulto, bilaterale o, più raramente, monolaterale.
Una volta plantare piatta è normale nel bambino alla nascita.
Questi piedini si appoggiano e funzionano come il palmo di una mano, sono morbidi, cicciotti e flessibili.
Poi piano piano, nel corso della crescita, il piede prende la sua forma ad arco, che è propria della razza umana, perché in questo modo il piede è più stabile, consente una stazione eretta senza fatica ma, soprattutto, acquista la capacità propulsiva che gli è propria. Si tratta di un processo naturale, sul quale è bene non interferire, se non è proprio necessario, che comincia a completarsi verso gli 8 anni e termina una volta che il piede ha raggiunto la sua misura definitiva cioè, in genere, verso i 14 anni.
Tuttavia, in questo percorso evolutivo, qualche volta le cose non vanno per il verso giusto. La volta plantare resta piatta, il calcagno sbanda verso l’esterno, le ginocchia si toccano e il nostro bambino deambula a paperetta.
Siamo davanti ad un quadro di piede piatto evolutivo del bambino.
Ecco che una storia attenta, fatta di domande banali (il bambino si stanca facilmente? Riesce nello sport? ecc), una visita accurata, una valutazione funzionale (ben più importante di quella morfologica), un esame podoscopico e, se indicato, delle RX sotto carico dei due piedi, ci porteranno a distinguere il piede patologico da quello normale, operazione non semplice, perché la popolazione borderline è numerosa.
Infatti, la maggioranza delle persone che vengono in ambulatorio con il sospetto di piede piatto hanno in realtà piedi assolutamente normali, con modeste alterazioni estetiche (dette paramorfismi) proprie delle variegate caratteristiche della razza umana.
Si devono valutare molti aspetti, la familiarità prima di tutto, poi l’iperlassità articolare, le possibili concause dovute ad altri fattori genetici e, infine, la morfologia del nostro apparato locomotore nel suo insieme. Vanno inoltre distinti in piedi piatti flessibili, da quelli rigidi.
Se giungiamo alla diagnosi di piede piatto da trattare abbiamo tre opzioni in base all’età:
- da 1 a 4 anni il piede deve essere lasciato libero e naturale, in grado di assorbire gli stimoli esterni. Il bambino impara con i piedi, lasciamolo camminare a piedi nudi, correre e saltare;
- da 5 a 9 anni, se siamo davanti ad un piattismo vero e significativo, andranno prescritti i plantari. I plantari sono suolette modellate su misura, che aiutano la volta plantare a formarsi e allineano il retropiede (funzione ortesica). I plantari insomma aiutano i meccanismi naturali legati allo sviluppo ad allineare il piede e a condurlo verso la normalità. Attenzione però a non usare plantari troppo rigidi o, peggio, scarpe ortopediche, perché tali sussidi portano ad atrofia secondaria e rigidità e sono dunque da proscrivere.
- Da 9 a 14 anni, se il piede è ancora significativamente piatto, “spancia” verso l’interno e si vede quasi una “doppia caviglia” e, in più, il bambino, ormai grandicello, cammina a punte divaricate appoggiando il piede al suolo come fosse lo stampino di un timbro, corre male e si stanca facilmente, si pone l’indicazione chirurgica.
L’intervento correttivo consiste nell’inserimento di un microscopico cilindro nel seno del tarso, all’esterno del piede, in una cavità vuota sotto l’astragalo e sopra il calcagno che assomiglia alla cavità auricolare.
In questo imbuto anatomico, con una piccola incisione e una divaricazione atraumatica dei tessuti, cioè solo scollando e allargando, si inserisce la piccola protesi che, come uno spaziatore interno, guiderà il piede progressivamente verso una posizione corretta, grazie ad un’azione detta di calcaneo-stop.
Tecnicamente parlando si esegue un intervento di artrorisi (limitazione parziale del gioco di movimento articolare) mediante endortesi seno-tarsica ad espansione.
La protesi deve restare in sede almeno per due/tre anni e poi, a crescita del piede raggiunta, si potrà sfilare agevolmente con un velocissimo intervento.
I risultati di questa tecnica ormai supercollaudata (più di mille protesi impiantate) sono eccellenti, praticamente privi di complicanze ed insuccessi (inferiori al 5%).
UN PO’ DI BIOMECCANICA E DI ANATOMIA
Il piede dell’uomo ha la caratteristica di rilasciarsi durante l’appoggio, per adattarsi al suolo, e di irrigidirsi in fase di spinta per migliorare la performance funzionale.
Il rilasciamento del piede è detto pronazione, perché avviene quando il piede oscilla all’esterno e si abduce.
All’opposto, per irrigidirsi, il piede si sposta all’interno, e si avvita su se stesso, parimenti ad un’elica flessibile, chiamata giustamente da uno dei nostri grandi maestri, il Paparella-Treccia, elica podalica. Questo movimento è detto supinazione.
In catena cinetica chiusa, cioè durante l’appoggio, la reazione piede-suolo vincola maggiormente il piede, per le forze di reazione all’appoggio, ma il principio resta lo stesso. Un piede dunque potrà essere definito funzionalmente normale, quando alterna pronazione, cioè rilasciamento, in fase di appoggio iniziale al suolo, a propulsione, cioè irrigidimento, in fase propulsiva.
Esisterà dunque, agli estremi dei tanti gradi di normalità o pseudo-normalità del piede umano, il piede in eccesso di supinazione, piede rigido (il piede cavo tipicamente) e il piede in eccesso di pronazione, cioè persistentemente rilasciato (il piede piatto, argomento di questo capitolo).
Rileggendo dunque la definizione di piede piatto in termini funzionali parleremo di piede piatto per indicare una sindrome pronatoria dell’infanzia e dell’adolescenza, definibile, in senso funzionale, come eccesso di pronazione durante la fase di appoggio/periodo di midstance del passo.
In termini anatomici la sindrome pronatoria è caratterizzata da un affondamento della testa astragalica nello spazio vuoto fra calcagno e scafoide (quella definita da Lanz/Wachsmuth prima, da Pisani poi acetabulum pedis), con cedimento del legamento calcaneo-scafoideo plantare (detto altrimenti spring ligament, per la sua capacità di ritorno elastico simile ad una molla).
Gli elementi indiretti di supporto del legamento, in primis il tendine tibiale posteriore, sono così sottoposti ad un lavoro eccessivo, come pure tutte le strutture di sostegno della volta plantare, quali quadrato della pianta e sistema achilleo-calcaneo plantare.
VALUTAZIONE CLINICA
Innanzitutto, vanno distinte due grandi categorie di piede piatto evolutivo del bambino.
Il piede piatto flessibile, di cui parleremo diffusamente più avanti, e il piede piatto rigido. Il piede piatto rigido è un piede che non si lascia correggere manualmente durante la visita, anzi è contratto e bloccato verso l’esterno. In questo caso dovremo sospettare un parziale blocco fra alcune ossa del piede (fra calcagno e scafoide il più frequente, fra astragalo e calcagno più raramente) che vincola il movimento.
Questa condizione deve essere riconosciuta e trattata, accanto al piattismo, pena garanzia di un sicuro insuccesso nel risultato.
Torniamo al piede piatto evolutivo del bambino, nella variante flessibile, che è la più comune (90% dei casi). L’aspetto morfologico dei piedi dei bambini con piede piatto evolutivo dell’infanzia non è univoco, tuttavia è caratterizzato, come elemento distintivo, da un marcato valgo del calcagno, cui può associarsi o meno la caduta della volta plantare con caratteristico allargamento dell’istmo al podogramma.
Nei casi più gravi compare una caratteristica convessità del profilo mediale del piede e una concavità laterale. La convessità mediale può essere accentuata da una procidenza esagerata del profilo mediale dello scafoide, all’inserzione del tendine tibiale posteriore, oppure per presenza di ipertrofia tubercolo mediale dello scafoide o di os tibialis externum, osso accessorio, con l’aspetto detto di doppia caviglia.
Sempre nell’osservazione statica, in carico bipodalico, eseguendo la manovra di iperestensione dell’alluce (detta Jack’s test) si nota un riallineamento del retropiede e una comparsa della volta plantare, con normalizzazione dell’appoggio. Questo non avviene nel piede piatto contratto per presenza di sinostosi astragalo-calcaneale o calcaneo-scafoidea.
Benché nella maggioranza dei casi la sindrome pronatoria sia caratterizzata da iperlassità, è sempre utile studiare la posizione dell’avampiede sul piano frontale, in rapporto alla posizione di neutra sottoastragalica (cioè prono-supinazione intermedia). In qualche caso è possibile osservare un varo dell’avampiede, con tipico elevato di M1, nella posizione di appoggio con retropiede mantenuto corretto.
Sempre fuori dal carico, e sempre in posizione sottoastragalica neutra, si studia l’ampiezza della corsa dorsiflessoria tibio-tarsica, onde valutare eventuale brevità del tendine (manovra di Silfverskiold), paragonando la posizione del piede con medio-tarsica a fondo corsa pronatoria, sia con ginocchio esteso, che flesso.
Non è raro infatti che questi soggetti deambulino con caratteristico equinismo, detto altrimenti stacco precoce o marcia digitigrada, passando direttamente dal periodo di contatto a quello di propulsione, onde compensare il cedimento pronatorio.
L’esame clinico viene completato dall’esame podoscopico statico, che permette di osservare l’appoggio del piede, con rilievo del podogramma, che è la stampa su carta dell’appoggio del piede.
Noi utilizziamo sia il classico podoscopio trans-illuminante a luce fluorescente, che la pedana baropodometrica, per una pronta visualizzazione della morfologia dell’appoggio e della dinamica del passo.
In realtà queste indagini, di significato più scenografico che altro, poco aggiungono all’osservazione clinica, eseguita in carico e fuori dal carico, in statica e in dinamica.
IMAGING
L’esame radiografico, obbligatoriamente in carico e, in rari casi, la TC e RMN completano lo studio del paziente.
L’esame Rx in carico permette infatti di apprezzare facilmente i segni dello scivolamento astragalico, che è misurabile mediante molti valori radiografici goniometrici, al pari della sovrapposizione fra cuboide e scafoide nelle proiezioni in carico in laterale.
Le proiezioni fuori dal carico, specie la proiezione obliqua, sono utili per studiare la presenza di eventuali sinostosi calcaneo-scafoidee, mentre la TAC resta l’esame di scelta per studiare i profili ossei sopra-sustentacolari, nel sospetto di sinostosi astragalo-calcaneare.
INDICAZIONE ALL’INTERVENTO E SCELTA DEL TIPO DI INTERVENTO
Nel piede piatto evolutivo del bambino l’indicazione chirurgica per intervento correttivo viene posta dopo gli 8-9 anni, a seconda del coefficiente di crescita, in presenza di piedi piatti che non dimostrino miglioramento e che presentino alterazioni funzionali importanti per eccesso di pronazione.
La deambulazione di questi bambini è caratteristica: il piede durante il passo sembra flettersi nella sua parte centrale per cedimento pronatorio e lo stacco dal suolo avviene solo grazie ad una attivazione precoce del tendine di Achille.
Tutto il corpo partecipa a questa anomalia motoria: le ginocchia sono valghe, il busto spinge in avanti, le anche sono flesse.
Se la radiografia conferma l’appiattimento della volta plantare si pone indicazione ad intervento di artrorisi con endortesi seno-tarsica ad espansione.
L’intervento ha lo scopo di limitare l’eccessiva pronazione e di mantenere il calcagno in posizione allineata (è detto infatti anche calcaneo-stop). L’intervento dà i migliori risultati quado il piede è ancora in crescita in modo che le ossa e le parti molli, in particolare i legamenti, si adattino progressivamente all’allineamento imposto dall’endortesi.
L’endortesi, che assomiglia a un tassello ad espansione, è costituita da un’anima in acciaio formata da una vite e da un corpo esterno cilindrico in polietilene ad alta densità, con alette apribili durante l’avvitamento. Dopo oltre 35 anni di utilizzo senza dispiaceri possiamo dire che si tratta di una combinazione vincente fra design e materiali di alta qualità. Anche dopo rimozioni a oltre 20 anni dall’impianto, e routinariamente nelle rimozioni a 4-6 anni, troviamo il materiale in perfette condizioni, privo di usura o rottura. Inoltre, i tessuti circostanti non presentano mai segni di reazione da corpo estraneo, a testimonianza della bontà dell’idea progettuale e della qualità del materiale.
Il percorso chirurgico è agile e veloce. In sala operatoria l’anestesista fa una sedazione superficiale, con respiro assistito in maschera, e il chirurgo esegue una piccola incisione di circa 1,5 cm centrata sul seno del tarso, seguendo le linee di Langer (pieghe della cute).
Caricato il batuffolo adiposo, ci si fa strada per via smussa fra le fibre del legamento astragalo calcaneare laterale e si calibra con apposito strumentario la grandezza del seno. Si inserisce l’endortesi misura nr. 8, più raramente il nr.10, che viene espansa una volta inserita proseguendo l’avvitamento, in modo da ancorarsi al meglio sui tessuti circostanti. A difesa dell’impianto si esegue la sutura del legamento prima e della fascia poi, riportando il batuffolo in avanti a coprire la breccia legamentosa. Si ricrea insomma una anatomia il più normale possibile, per rendere l’intervento assolutamente atraumatico, rispettoso dell’anatomia locale.
Dopo l’intervento si esegue un ponfo anestetico per controllare il dolore, e un gessetto in vetroresina tipo stivaletto, che verrà subito aperto a valve in reparto.
Il tempo chirurgico è di pochi minuti, anche se il piccolo paziente si trattiene in sala operatoria circa un’ora, fra preparazione, intervento e risveglio.
Il bambino viene dimesso in giornata, circa 3-4 ore dall’intervento, una volta smaltita l’anestesia. Si inizia ad appoggiare il piede col gessetto dopo sette giorni, una volta fatta la prima medicazione.
Non servono poi altre medicazioni, perché si usano punti auto-riassiorbibili.
A venti giorni si toglie il gesso e si riprendono progressivamente le proprie attività.
Lo scopo del gessetto è di favorire la formazione di un tessuto fibroso sopra la protesi, per prevenirne l’espulsione. Sconsigliamo dunque l’intervento bilaterale in questa tipologia di intervento, poiché il bambino si sentirebbe molto limitato, con contraccolpo psicologico.
L’intervento monolaterale diventa invece quasi un gioco, vista l’assenza di dolore e l’autonomia conservata. I ragazzi saltellano e si divertono, vanno a scuola senza problemi come dopo una banale distorsione di caviglia.
Tempo accessorio dell’intervento può essere l’allungamento del tendine di Achille, in genere con tecnica di recession, usualmente già programmato d’accordo coi genitori durante la visita, per brevità achillee molto significative.
Questa procedura nella nostra casistica è intorno all’8%. Riteniamo infatti che, nel bambino, il tendine di Achille abbia la capacità di estendersi autonomamente grazie alla sua elasticità naturale e che si debba evitare, se possibile, di indebolire una struttura anatomica così preziosa.
Altri tempi eseguiti, rari, riguardano l’asportazione dello scafoide accessorio, solo se davvero esuberante. Non eseguiamo più, nel trattamento del piede piatto con endortesi, ritensioni capsulo-ligamentose mediali tipo Young o simili, ritenendole inutili, data la capacità della protesi di riallineare il piede, favorendo spontaneamente la ritensione dei legamenti complice la crescita del soggetto.
I risultati di questa chirurgia sono eccellenti in circa il 96% dei casi.
Le poche complicanze sono state legate in passato all’uso di endortesi riassorbibili in PPLLA (acido polilattico) per espulsione-intolleranza-perdita di correzione.
Queste protesi, che pur avrebbero avuto il vantaggio di non richiedere rimozione, sono state dunque da noi abbandonate da oltre 20 anni.
Non abbiamo avuto nessun caso di espulsione/mobilizzazione della protesi nelle protesi standard, non riassorbibili.
Una modestissima percentuale dei casi operati ha sviluppato un piede contratto, anche se corretto, che si è risolta con asportazione precoce dell’impianto.
Davanti al piede piatto del giovane adulto, quando si tratti cioè di piede piatto in ragazzi più grandi, sopra i 13 anni, eseguiamo un intervento di calcaneo-stop con vite esosenotarsca in titanio, detta CNF (calcaneal notch filler).
Il principio dell’intervento è lo stesso dell’endortesi, solo che la vite è più aggressiva, più potente e dunque più adatta alle richieste funzionali di un adolescente.
La protesi CNF richiede un foro nel calcagno per essere avvitata stabilmente e solidamente e ha il vantaggio che l’intervento, quasi sempre bilaterale, richiede solo un semplice bendaggio e consente un carico immediato.
Nel piede piatto rigido le procedure chirurgiche sono simili a quelle elencate, solo che l’inserimento della protesi va preceduto da demolizione della sinostosi.
I risultati sono buoni nelle sinostosi calcaeo-scafoidee, meno in quelle mediali calcaneo-astragaliche, dette anche supra-sustentacolari per la loro sede.
In queste sinostosi mediali, spesso estese e robuste, ci orientiamo sempre più spesso verso un intervento di artrodesi extra-articolare con stecca ossea tibiale, tipo Grice-Green-Vigliani, da eseguire però in età appena maggiore, cioè dopo i 14 anni.
In questi casi il piede si irrigidisce parzialmente, ma resta corretto nel tempo e senza dolore.