Che cos'è
Il piede piatto dell’adulto è un quadro acquisito, evolutivo, su predisposizione congenita.
Come per il bambino, un piede si definisce piatto per appianamento dell’altezza della volta plantare e cedimento del piede verso l’interno, con valgismo del calcagno.
In senso funzionale il piede piatto dell’adulto appartiene alla sindrome pronatoria, cui partecipano, oltre al piede, le ginocchia che valgizzano, l’anca che extraruota e la postura, nella sua globalità, che si altera per ricerca del baricentro con iperlordosi e, spesso, dismetria.
Nei casi avanzati il piede è apropulsivo e la deambulazione quasi arrancante, con difficoltà di equilibrio e dondolio anomalo.
Molte persone convivono col loro piede piatto tutta la vita, ma alcune, per traumi minori, sovraccarichi professionali, alterazioni ormonali, cui consegue eccesso di peso, sviluppano un piede piatto sintomatico.
Il dolore è riferito sul seno del tarso ed a livello plantare, talora anche sottomalleolare mediale.
Tranne che per presenza di patologie congenite, come barre sinostotiche, il piede piatto dell’adulto è, nelle fasi iniziali ed intermedie, un piede flessibile.
Diventa rigido nel tempo, quando, per deformità artrosica, dolore cronico, contrattura tendinea (specie i tendini peronieri) diviene dapprima contratto e poi rigido.
Nel corso degli anni, attraverso l’esperienza, lo studio e gli insegnamenti di grandi maestri, come Myerson negli USA e Malerba in Italia, abbiamo imparato a riconoscere nel piede piatto sintomatico, ancora flessibile, un primum movens, che è la destabilizzazione del piede a causa di un progressivo cedimento del tendine tibiale posteriore.
Questo tendine è il vero e proprio tutore della volta plantare, e quando cede progressivamente il piede non riesce a supinare correttamente, tanto che non riesce a stabilizzarsi in punta su un arto solo.
Poi, progressivamente, cedono le altre strutture di supporto per la testa astragalica, come il legamento a molla calcaneo-scafoideo plantare (spring ligament) e, nei casi più avanzati, il legamento deltoideo.
Tutto il piede partecipa al crollo progressivo del piede: l’avampiede, che abduce e si varizza, strutturandosi in varo-supinazione, il mesopiede, che si rilascia ed abduce, il retropiede che si valgizza ed everte sempre più, la tibio-tarsica che sviluppa precocemente un quadro artrosico.
Oltre ai dolori al piede compaiono dolori e stancabilità alle gambe e mal di schiena.
Il piede piatto dell’adulto, se non adeguatamente trattato, tende a evolvere verso l’artrosi, le rotture tendinee, le plantalgie, le deformità delle dita.
I plantari sono una buona soluzione nelle fasi iniziali, accanto ad una riduzione del peso e a sane regole di vita, come movimento costante e non esagerato.
Tuttavia, se il cedimento procede e il tendine tibiale posteriore soccombe al sovraccarico funzionale, prima con tendinosi degenerativa e poi con vera e propria rottura sottocutanea, diviene necessaria una chirurgia ossea, che ricentri l’asse di carico con osteotomie di ricentraggio del calcagno.
Al contempo andranno riparate le strutture attive di sostegno dal lato interno e ciò significa riparare il tendine tibiale posteriore con tendini dì vicarianti la sua funzione, in particolare il flessore comune delle dita.
Ma non basta, molte volte si deve riparare anche lo spring ligament e riallineare l’avampiede, ormai strutturato in varo, con osteotomie di plantarflessione a livello del primo cuneiforme od artrodesi modellanti selettive della colonna interna.
Lo scopo finale è quello di creare un piede plantigrado, che ricordi, almeno staticamente, il tripode fisiologico di cui la natura ci ha dotato.
Quando però, nel corso del tempo, la deformità sia diventata rigida, artrosica, occorre passare ad interventi maggiori, che sacrificheranno il movimento, pur di riallineare l’appoggio, togliere il dolore e dare stabilità.
Questa è l’indicazione per la chirurgia di fusione, le artrodesi, chirurgia complessa e con lunghi tempi di recupero, da attuare solo in condizioni avanzate.
Infine, davanti ad un interessamento esteso anche all’articolazione tibio-tarsica, la sfida sarà fra chirurgia di sostituzione protesica, previo allineamento del retropiede e mesopiede, e la chirurgia di fusione globale del complesso caviglia piede, quali come le artrodesi talo-tibio-calcaneali con chiodo retrogrado.
Nell’ambito delle numerose opzioni chirurgiche curative per il piede piatto dell’ adulto, da attuare solo con grande esperienza e maturità chirurgica, sono presenti molte tecniche chirurgiche accessorie o complementari, come l’ allungamento del tendine di achille, le artrorisi subtalari con protesi endo-senotarsiche, simili a quelle usate nel piede piatto del bambino, correzioni di una o più deformità dell’avampiede, “cugine” della sindrome pronatoria, come alluce valgo, dita a martello, neuroma di Morton, senza dimenticare la decompressione del tunnel tarsale e la fasciotomia plantare.
Insomma il capitolo del piede piatto dell’adulto è reso estremamente complesso dalla multiforme presenza di deformità a più livelli e in più sedi e caratterizzato inoltre da grandi difficoltà tecniche, che devono essere comprese dal paziente.
Infatti i tempi di ripresa, in questo tipo di chirurgia, sono lunghi, talora estenuanti, e richiedono collaborazione e pazienza.
Ovviamente, quando poi ci si rende conto di poter riprendere a camminare in autonomia e di aver frenato un inevitabile peggioramento la soddisfazione è immensa.
CLINICA E IMAGING
La valutazione del paziente richiede in prima istanza una accurata anamnesi, sui tempi di comparsa dei sintomi e sul perché della comparsa.
Poi si analizza l’appoggio al suolo e al podoscopio e tutta la conformazione dell’arto inferiore.
Infatti il piede può essere l’unica struttura sofferente o incastonarsi in uno squilibrio pronatorio di tutto l’arto inferiore.
Restando alla valutazione squisitamente podoiatrica, prima di tutto testiamo la motilità prono-supinatoria del complesso sottoastragalico e poi lo portiamo in posizione neutra.
Da qui valutiamo un eventuale varismo dell’avampiede, con metatarso elevato o meno.
Infine testiamo il tendine di Achille col test di Silfverskiold.
Cerchiamo poi i trigger point dolenti, specie sul seno del tarso, e palpiamo il decorso del tendine tibiale posteriore, spesso edematoso e succulento.
Mettiamo quindi il paziente in piedi ed esaminiamo l’asse del calcagno, in particolare se superiore a 5° gradi di valgismo.
Johnson ha chiamato “segno delle troppe dita” il fatto che, visto da dietro, il retropiede lasci vedere le dita esterne.
Poi si invita il paziente, su una sola gamba, a mettersi in punta dei piedi (high heel raising test). Questo test ci indirizza verso una valutazione di funzione conservata o meno del tendine tibiale posteriore.
Un paziente che non riesce a stare stabilmente in punta dei piedi su una sola gamba ha probabilmente una lesione degenerativa del tibiale posteriore, con insufficienza funzionale del tendine stesso.
Si corregge quindi il retropiede e si valuta se il primo raggio si appoggia o meno al suolo (test di Hintermann).
Questo test è importante per prevedere quale sarà l’allineamento del retropiede una volta corretto il calcagno.
Si prende atto poi delle eventuali deformità associate, specie di alluce e dita, ai fini di una possibile programmazione chirurgica.
L’imaging richiesto per una diagnosi completa è il seguente.
Il primo esame è rappresentato da Rx sotto carico dei due piedi. Queste ci dimostreranno i classici aspetti del piede piatto e in particolare l’abbassamento della testa astragalica e l’appianamento della volta plantare, nonché l’accorciamento apparente della colonna esterna.
Interessante anche valutare la presenza di uno scafoide accessorio (os tibialis externum), significativo motivo di aggravamento del tendine tibiale posteriore che, costretto ad una corsa angolata a tal livello, si usura ulteriormente.
Richiediamo poi abitualmente una Ecografia muscolo tendinea che studi i tendini inversori mediali, onde discriminare fra tenosinovite ed eventuali interruzioni.
Successivamente andrà richiesta una Risonanza Magnetica Nucleare per ulteriori informazioni su condizioni dell’osso (edema o meno), compromissione artrosica, condizioni tendinee, versamento articolare, lesione del legamento calcaneo-scafoideo-plantare (CSP).
La RMN può essere integrata o meno con una TC multislice con ricostruzioni 3D.
In casi particolari si deve studiare la caviglia, anche con Rx sotto carico in antero-posteriore, ad esempio se si dovesse ipotizzare un intervento di protesi tibio-tarsica.
Esami accessori sono una elettromiografia per tunnel tarsale, una ecografia per fascia plantare, un doppler artero-venoso, una analisi della marcia su pedana (gait analysis), che richiede però un laboratorio di biomeccanica applicato.
TRATTAMENTO
Come già detto nella parte introduttiva i plantari sono il primo presidio da prescrivere.
Debbono essere costruiti su misura e con attenzione, dovendo essere sufficientemente rigidi per sostenere la volta plantare, senza creare dolori o problemi compressivi.
L’indicazione è quindi per plantari su calco in neutra sottoastragalica secondo la tecnica di Ruth, adeguando poi l’appoggio dell’avampiede in base all’eventuale elevato del primo raggio.
Vanno inseriti dei cunei specifici a questo scopo.
Il plantare richiede alloggio in una scarpa congrua, comoda ed allacciata, con suola a barchetta per rotolamento facilitato (smooth transmission).
Al plantare vanno associati una serie di consigli importanti, quali la riduzione del peso corporeo e la riduzione di eventuale attività fisica in carico.
Molto utile inoltre affidare il paziente al fisioterapista, nostro alleato nel ricavare il più possibile dalle cure fisiche e manuali e nel passare invece la mano quando il quadro non risponda ai trattamenti.
In questi casi l’indicazione è chirurgica.
Come già detto nel capitolo relativo al piede piatto del bambino esiste una prima categoria di piedi piatti sintomatici rappresentata dal giovane adulto con piede flessibile.
Questi pazienti lamentano cedevolezza e stancabilità del piede, come è tipico della sindrome pronatoria, dolore mediale al ginocchio, limitazione motoria correlata alle scarse performance podaliche.
In questa tipologia di pazienti si può proporre l’intervento di artrorisi sottoastragalica con endortesi come unica procedura o come procedura principale associati ad altri tempi fra i quali l’asportazione di un os tibialis doloroso o un allungamento del gastrocnemio mediale, se vi è un tendine di Achille retratto.
Utilizziamo in questi casi una endortesi in titanio di calibro variabile, in genere il 9, che va posizionata con molta attenzione nel seno del tarso, per ottenere un posizionamento corretto.
Nell’adulto il rischio di una contrattura antalgica, come pure di un dolore locale, è maggiore che nel bambino, che richiede un adattamento del piede minore.
Le endortesi per piede piatto dell’adulto presentano una necessità di rimozione a uno/due anni dall’impianto di circa il 10%. Per fortuna nella maggioranza dei casi non si perde la correzione ottenuta e il giudizio dei pazienti resta positivo.
La seconda categoria di pazienti affetti da piede piatto dell’adulto in cui è indicato un intervento chirurgico è rappresentata da coloro che presentano una insufficienza, più o meno grave, del tendine tibiale posteriore.
Questa insufficienza, definita posterior tibial tendon dysfunction o PTTD dagli AA anglosassoni ha ricevuto negli anni molta attenzione quale elemento classificativo della progressione patologica del piede piatto adulto ed è stata divisa da Johnson e Strom prima, da Myerson e Bluman poi in 4 stadi.
Il primo stadio è analogo alla condizione appena descritta per il piede piatto flessibile del giovane adulto ed è una condizione ampiamente trattabile con ortesi e riduzione dell’attività fisica.
Nello stadio II, quando la funzione del tendine è compromessa, il piede richiede una valutazione biomeccanica attenta per un menù chirurgico “a la cartè” come si dice.
Il ruolo principale è rappresentato dalla osteotomia lineare di medializzazione del calcagno dette medial displacement calcaneal osteotomy o MDCO.
Questa osteotomia, descritta da Gleich e Koutsojannis dapprima, poi popolarizzata da Myerson, si esegue mediante una incisione laterale rettilinea al calcagno di circa 5 cm, con interruzione ossea completa, in modo di medializzare la tuberosità di 1 cm almeno.
Spostato l’osso quanto basta, la sintesi viene affidata ad una/due viti, oppure a placche o lame placca dedicate che hanno il vantaggio di offrire stabilità e spostamento calcolato.
Completato il tempo osseo si passa alla riparazione del tendine tibiale posteriore con incisione curvilinea mediale, che esplora il decorso del tendine e il legamento calcaneo-scafoideo plantare, mediante una incisione sinuosa mediale di circa 6/7 cm.
La patologia del tendine, che avremo già classificato preoperatoriamente grazie a clinica, RMN ed ecografia, può essere quella di una tenosinovite come quella di una rottura completa.
Se il tendine è continuo, ma sofferente, si escide la parte degenerata, si tubulizza il tendine e lo si inserisce in avanti mediante ancoraggio sullo scafoide tarsale.
Se il tendine è interrotto, una volta esplorato il legamento calcaneo-scafoideo-plantare e talvolta riparatolo con punti transoossei con lo scafoide, si ricerca il flessore lungo delle dita, che scorre sotto ed appena più ventralmente al tibiale posteriore e lo si distacca il più distalmente possibile. Si reinserisce poi questo tendine sulle scafoide, mediante punti transossei o ancoretta in titanio e lo si irrobustisce mediante tubulizzazione, cioè imbastitura, insieme ai monconi residui del tendine tibiale posteriore.
Si crea così un cordone tendineo abbastanza robusto, con adeguata tensione, in grado di vicariare bene la funzione del tendine tibiale posteriore originario.
Se si è in presenza di scafoide accessorio, questo va rimosso e poi il tendine tibiale posteriore adeguatamente ritensionato.
A questo punto va studiato l’asse dell’avampiede sul piano frontale, portando la tibio-tarsica a 90° e l’articolazione sottoastragalica in posizione neutra.
Se preoperatoriamente era presente un avampiede varo, con primo metatarsale elevato, il planning operatorio avrà previsto una osteotomia di abbassamento della colonna interna o un’artrodesi scafo-cuneiforme, che può coinvolgere o meno anche la cuneo-metatarsale.
Molte volte tuttavia la MDCO rilascia e detende la fascia plantare, consentendo al piede di rilasciarsi, ed ecco che l’allineamento dell’avampiede sul piano frontale ridiventa corretto.
Se questo non avviene, si esegue una osteotomia in apertura del primo cuneiforme, detta di Cotton, eseguendo una sezione ossea parziale a livello dorsale ed inserendo una placca a cuneo o un cuneo in titanio poroso per aprire sufficientemente l’osso.
Eseguiremo invece una fusione con placca dedicata o con viti a livello scafo-cuneiforme in caso di concomitanti fatti artrosici locali o in piedi che dimostrino un significativo cedimento in tale sede, con apertura/cedimento astragalo-scafoideo.
Si passerà poi da un lato ad eventuale allungamento del tendine di Achille con tecnica percutanea, dall’ altro ai tempi richiesti sull’ avampiede, quali la correzione dell’alluce e delle dita.
In casi selezionati si associa alla MDCO una artrorisi con endodortesi in titano, allo scopo di allineare tridimensionalmente, intorno al suo asse biomeccanico, detto asse di Henke, l’articolazione sottoastragalica.
I risultati della chirurgia del piede piatto dell’adulto con PTTD grado II sono eccellenti se l’intervento è eseguito con corretta indicazione e con tecnica impeccabile.
Il piede si allinea e resta stabile e ben funzionante nel tempo, senza dolori.
L’ intervento richiede immobilizzazione per un mese con stivaletto in VTR o tutore senza carico ed un successivo mese di carico protetto con stampelle, associando adeguata riabilitazione.
La terza tipologia di pazienti è rappresentata dal piede piatto rigido, a componente artrosica.
Si tratta di condizioni di grave cedimento del piede in cui è indicato proporre una chirurgia di fusione, cioè un’artrodesi sottoastragalica e medio-tarsica, detta duplice.
Di fatto si cruentano, in genere per via mediale, astragalo-scafoidea e sottoastragalica postero-laterale, eseguendo poi una sintesi con viti e placche.
Questa chirurgia è più pesante per il paziente, con tempi lunghi di recupero, circa tre mesi, con possibili complicanze legate a dolore, edema persistente, non consolidazione, intolleranza mezzi di sintesi.
Osservata speciale la tibio-tarsica, che talora non si adatta al neo-assetto, diventando sintomatica.
In questi casi la soluzione è quella di eseguire una protesi di caviglia o, nei casi di piede completamente everso, instabile, per contemporaneo cedimento del legamento deltoideo, un’artrodesi talo-calcaneo-tibiale (TTC) con chiodo retrogrado.